Quando l’Arcivescovo di Diego-Suarez, mons. Wolff nel 1967 si rivolse al nostro P. Generale per l’invio di Missionari Redentoristi nell’Isola Rossa, quest’ultimo privilegiò i Redentoristi napoletani. Tra le varie case che ci assegnò mons. Albert Tsihaohana, successore di mons. Wolff, la più stabile, è stata, ed è ancora, la residenza di Vohemar, dimora costruita dai Padri Spiritani, vicina al mare, nella pescosa e amena baia che sfocia nell’immensa distesa azzurra dell’Oceano Indiano.
La chiesa, costruita nel 1942, è ad una navata e dista circa cento metri dalla moschea, tanto che il minareto e il campanile si guardano con simpatia, ed avviene che al mattino presto, si oda il muezzin che invita i musulmani alla preghiera, e dopo un po’ di tempo, il sacerdote celebrante di turno, da bravo campanaro, avvia a distesa, la grande campana; nei giorni festivi, mentre questa vola, inizia il suono della seconda e terza campana. Allora tutta la baia diventa armoniosa.
Ma un mattino di festa, salì le scale del campanile, tutto ansante e trafelato, il capo del comitato parrocchiale, Rajeston, che gridò: “Padre, fermate le campane! Il campanile si muove! È pericolante!”. Il padre ubbidì.
I Padri Spiritani dicono che le campane di Vohemar, hanno il più bel “carillon” del Madagascar per il loro suono melodioso. È un richiamo per i numerosi fedeli, soprattutto la domenica, che percorrono a piedi dai propri villaggi decine di chilometri: sono grandi podisti! Tra questi era assiduo il giovane Be Emmanuel, di km ne percorreva 60! È diventato a sua volta anche lui Redentorista!
Quando ero responsabile della Missione di Vohemar, imparai a conoscere l’ambiente. Il sabato sera inviavo gruppi di giovani nei villaggi limitrofi, per prepararli alla celebrazione della Messa, al catechismo, ad apprendere i canti. La domenica li raggiungevo, affidando ai confratelli la celebrazione delle messe nella nostra chiesa.
Vivevamo un buon rapporto anche con il presbitero anglicano, stimato dai cattolici, fornendo le particole per le loro liturgie. Il vescovo anglicano, ogni volta che proveniva da Diego-Suarez per la sua tournée nel territorio di Vhoemar, non esitava a renderci visita a casa per ringraziarci.
Anche con i musulmani i rapporti erano amichevoli: ci veneravano come loro padri spirituali, alla fine del ramadan ci visitavano con affetto donandoci dei dolcetti da loro confezionati. Il nostro Fratello Stefano Avagliano ogni venerdì sera pregava il Rosario nella loro moschea, mentre loro, prostrati sulle stuoie con le facce a terra, recitavano versi del Corano.
La nostra missione aveva costituito quattro squadre di basket maschile e femminile, e tra i vari giocatori diversi erano musulmani: avevamo composto l’ASV (Associazione Sportiva Vohemar), evitando l’aggettivo cattolico e volendo dare un’impostazione interreligiosa, non escludendo nessuno.
Un anno la Direzione Sportiva di Diego indisse un campionato, spesso le partite terminavano a notte inoltrata: la squadra della nostra missione, dotata anche di un abbigliamento sportivo adeguato fornito dalla ditta tessile Pezzino, fu la migliore prevalendo sulle altre ed innalzando il trofeo; grazie anche ai fratelli musulmani che in questo gioco erano molto validi.
Mensilmente preparavamo la giornata ecumenica. Quella domenica, dopo esserci riuniti sia presso gli anglicani che i protestanti, l’incontro si svolse nella nostra chiesa. Prima di iniziare mi trovai di fronte i responsabili delle due moschee, i quali mi pregarono di consentire loro di partecipare alla preghiera cristiana per avere una cognizione, ed aggiunsero: “Anche noi islamici crediamo in Dio e nel nostro padre Abramo, come voi; e imponiamo il nome di Ismaele ai nostri figli, Ismaele fu benedetto da Dio ed è grande la sua discendenza. Rispettiamo Maria, madre del profeta Gesù. Come vedete, padre Vincenzo, chiediamo solo di ascoltare”. Non potei far altro che acconsentire alla richiesta degli imam, nonostante la disapprovazione dei protestanti cui diedi le dovute spiegazioni e che piano piano si calmarono.
Nel periodo quaresimale svolgevamo nella nostra chiesa la Via Crucis che vedeva la partecipazione di numerosi fedeli, anche diverse prostitute della zona intervenivano con grande devozione, i canti erano belli, soprattutto l’invocazione alla Madonna. Con la gente avevo stabilito un rapporto di familiarità, posso dire – chiedo scusa, forse con orgoglio – che mi amava, come io ho imparato ad amare loro, e mi seguiva. Un sacerdote malgascio, Jean Louis, della missione di Ampanefena, una volta così si espresse: “Padre, noi malgasci non badiamo se parlate bene la nostra lingua, ma se voi parlate col cuore noi vi capiamo subito. I Missionari Spiritani davano ordini, voi, invece, dialogate, ci seguite e ci convincete perché vivete come noi, come una sola famiglia”.
Ma giunse il momento che dovetti comunicare loro che dovevo lasciare Vohemar, in quanto i superiori mi destinarono alla comunità di Anjiro, distretto della provincia di Ambatondrasaka, dove mi attendeva un nuovo campo di apostolato. I fedeli approfittarono della visita di mons. Tsihaohana per manifestare il loro dissenso per questa scelta; il vescovo rispose loro che non dipendeva da lui ma dai superiori italiani, anche a lui dispiaceva perché riteneva che svolgessi bene l’attività parrocchiale tra loro, con dedizione.
A dire il vero, da tempo il vescovo di Ambatondrasaka mons. Vollaro e il suo successore mons. Antonio Scopelliti, italiani, chiedevano la nostra presenza redentorista nella loro diocesi. Così il 16 ottobre 1999, giorno dedicato a san Gerardo, inaugurammo la nuova casa missionaria ad Anjiro, comune distante circa 100 chilometri dalla capitale Antananarivo. Allora, oltre ad essere sede di noviziato, avevamo la cura pastorale del distretto che comprendeva 25 villaggi. Il vescovo ausiliare, mons. Gaetano Di Pierro, accolse me e il mio collaboratore, p. Jean Honoré, in maniera cordiale.
Anche qui, presi visione della realtà; mi resi conto delle varie attività parrocchiali che potevamo svolgere, ma anche che intorno alla missione vi erano casolari fatiscenti dove viveva povera gente, strade melmose e piazzette di ritrovo malandate, la chiesetta era troppo piccola per accogliere i numerosi fedeli che partecipavano dall’esterno alle celebrazioni liturgiche, o sotto il sole cocente o col tempo piovoso; così decisi di imbattermi in un’impresa ardua tentando di sistemare il tutto, con l’aiuto e la benedizione del buon Dio, per il bene di quella gente.
Contattai la Caritas di Parma e l’Opus Dei di Roma per materiali di prima necessità. Avviammo la costruzione della grandiosa chiesa, dedicandola ovviamente al nostro caro s. Gerardo. Fu il vescovo di Moramanga, mons. Di Pierro a consacrarla; una fiumana di fedeli accorse quel giorno, si formò una processione interminabile, tanto da meravigliare lo stesso vescovo. La stessa processione, fu preceduta da una trentina di ciclisti con la maglia dell’Opus Dei di Roma che avevano compiuto il giro del villaggio. Al termine della celebrazione scoppiò un fragoroso ed interminabile applauso da parte della gente che vedeva compiuto l’edificio spirituale che da tempo desiderava.
In seguito feci costruire in diversi villaggi delle scuole materne, delle strade, feci risistemare i locali utilizzati dalle famiglie dei catechisti che si prodigano per la catechesi in tutta la zona. Pensai ai ragazzi più poveri che provenivano dai villaggi più lontani per studiare e feci edificare dei locali dove poter alloggiare.
Le autorità malgasce non stavano solo a guardare e ad applaudire. Un giorno si presentò alla missione una delegazione del governo del Madagascar: non mi turbai a vederla, anzi andai incontro ad accoglierla. Il rappresentante, fatto il saluto militare, mi dice: “Veniamo in nome del Presidente del Madagascar, che è anche Gran Maestro dell’Ordine Nazionale, per la sua attenzione umanitaria espletata per la nostra gente, ha deliberato, col seguente brevetto, di nominarvi ‘Cavaliere’ dell’Ordine Nazionale” e legge il diploma, sormontato da una medaglia. Ascoltai con molta meraviglia e in rispettoso ossequio, come amano i malgasci in tali circostanze, della onorificenza di questa proclamazione.
Per questa circostanza giunse una rappresentanza della Caritas di Parma e dell’Opus Dei di Roma, rimasero soddisfatte nel costatare la creatività missionaria così proficua in favore di quella popolazione. Ebbi semplicemente modo di dire: “In questi quarantun anni trascorsi in Madagascar mi sono sentito realizzato; e quanto desidero di ritornare ancora, se non fosse per la vista che si è molto abbassata!”. Però Dio premia i desideri come se fossero già opere compiute. Il profeta Daniele fu proclamato “uomo dei desideri” e Dio ne tenne conto. Sia tutto a gloria del Redentore e di s. Alfonso!
p. Vincenzo Martone C.SS.R.
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