Confesso che fino all’agosto del 1989, poco o niente mi ero interessato delle Missioni Estere. Certo, sapevo che dei confratelli lavoravano in Madagascar, aiutavo Fr. Matteo nella preparazione e spedizione dei pacchi, ma non più di tanto. In quella data, però, il Superiore Provinciale, p. Antonio Napoletano, quasi a bruciapelo, mi chiese di accompagnarlo nella visita fraterna che da lì a pochi giorni avrebbe fatto a quei confratelli. Lo scopo della visita alla Missione era quello, dietro le indicazioni del Capitolo Provinciale, di studiare le modalità, di rinvigorire le strutture della Missione; in alternativa si sarebbe dovuto procedere alla sua chiusura e al rientro in Italia dei pochi confratelli ancora in Madagascar.
I pochi giorni di permanenza nella Grande Isola furono sufficienti a far comprendere la straordinarietà del lavoro fatto dai missionari fino a quel momento, la loro altissima sintonia con lo stile di vita del popolo malgascio e, soprattutto, l’inenarrabile stile di vita povero e lavorativo di questi missionari. Contemporaneamente ci fu anche una presa di coscienza diretta e visiva dello stato di miseria e di abbandono di tutto un popolo
Il Madagascar, che viveva allora una situazione politica di transizione e di opposizione al governo del presidente Ratsiraka, attraversava, se così si può dire, una ulteriore crisi economica e un profondo isolamento internazionale, con conseguente carenza assoluta di beni alimentari essenziali, di medicinali, e di quanto necessario alla vita di un grande paese. In tutto questo ebbi coscienza che non bastasse, una volta ritornato in Italia, raccontare, per qualche settimana, “sapeste in che stato di povertà vivono”, e riprendere tranquillamente le mie attività e la mia vita
La piccola storia della Missione
Dal 1967 al 1990: testimonianza della povertà assoluta
Per comprendere adeguatamente il cammino pastorale e spirituale realizzato dalla Missione in questi cinquant’anni, è opportuno seguire anche lo sviluppo delle idee e delle varie forme di autocomprensione della nostra presenza nella Chiesa.
È bello ricordare che inizialmente, i primi Missionari, i padri Luigi Pentangelo e Vincenzo Sparavigna non andarono nell’Isola Rossa per impiantare la presenza e l’opera della Congregazione, quanto, quasi a titolo personale, come sostegno alla diocesi di Diego-Suarez, venendo incontro alla richiesta di aiuto del Vescovo, responsabile di un territorio vastissimo, ma con pochi sacerdoti. E’ questa l’epoca nella quale tutta la Chiesa vive con grande trasporto il movimento del Fidei donum, movimento sgorgato dall’enciclica di papa Pio XII, e che vede un grande dinamismo e fervore di Diocesi e Istituti religiosi, nell’inviare missionari in Africa
É l’epoca dei pionieri, perché coloro che partono fanno affidamento solo su se stessi e su Gesù Cristo. È anche doveroso riconoscere, pertanto, che la nostra Provincia religiosa ha vissuto questa prima fase con un certo disinteresse; il legame concreto era costituito dalla visita che il Superiore Provinciale compiva all’inizio del triennio. I confratelli missionari hanno vissuto questa prima fase con grandi sacrifici e privazioni e a totale disposizione del Vescovo, che li spostava secondo le esigenze della Diocesi. I nomi di Tanambao, Anamakia, Antongobato, Ambilobè, Sambava, dicono poco o niente a molti di noi, ma sono stati i primi territori che hanno visto la presenza dei Padri, fino a quando, poi, si sono fermati, in maniera stabile, a Vohemar ed Ampanefena
L’impegno dei missionari, in questo tempo, è stato prima l’assistenza spirituale ordinaria al popolo e poi le continue tournèe nella brousse, che consistevano nel partire dalla Missione e, per la durata di circa un mese, visitare, sempre a piedi, le comunità e i villaggi sparsi nella foresta. Inoltre, tale periodo è stato caratterizzato dalla totale mancanza di beni: mobilia, servizi, locomozione, ecc. e di strutture pastorali, formative e sportive per i giovani, ecc.
Una nuova coscienza
Intanto la Chiesa universale viveva “una primavera dello Spirito”, che manifestava i suoi fermenti anche nell’ambito dell’impegno missionario “Ad Gentes”. A partire dai documenti del Concilio Vaticano II qualsiasi attività pastorale e missionaria è stata sempre più chiaramente ritenuta come infruttuosa se non accompagnata da un forte e costante impegno sociale e caritativo.
Papa Paolo VI, a un anno dalla chiusura del Vaticano II scriveva nell’Enciclica “Populorum progressio”: “Lo sviluppo dei popoli, in modo particolare di quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione verso la meta di un loro pieno rigoglio, è oggetto di attenta osservazione da parte della chiesa”.
All’indomani del Concilio Ecumenico Vaticano II, una rinnovata presa di coscienza delle esigenze del messaggio evangelico le impone di mettersi al servizio degli uomini, onde aiutarli a cogliere tutte le dimensioni di tale grave problema e convincerli dell’urgenza di un’azione solidale in questa svolta della storia dell’umanità… “La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello” (nn. 1 e 3).
A sua volta la Conferenza Episcopale Italiana, con il documento “Evangelizzazione e testimonianza della carità”, dell’8 dicembre 1990, legava, in maniera indissolubile, l’evangelizzazione con l’impegno della carità: “Le Chiese che sono in Italia, partecipi della sollecitudine della Chiesa universale, si sentono pienamente coinvolte nella missione verso quanti, nei diversi paesi del mondo, non conoscono ancora Cristo, Redentore dell’uomo. Le nostre comunità si mostrano concretamente sensibili ai problemi e alle esigenze delle missioni, verso cui orientano iniziative e aiuti di persone e di mezzi, per sostenere il servizio dei missionari. Occorre però fare un passo avanti e vivere questa apertura come una dimensione permanente dell’evangelizzazione e della testimonianza della carità, consapevoli che il primo dono di cui siamo debitori ai fratelli è Cristo, pane di vita” (n. 36).
La stessa Congregazione Redentorista avviava, sempre in quegli anni, un profondo ripensamento delle sue attività e delle sue potenzialità pastorali alla luce del tema Evangelizare pauperibus et a pauperibus evangelizari (annunziare il vangelo ai poveri e lasciarsi interpellare dai poveri).
Una magnifica sintesi di questo travaglio è offerta dalla Communicanda n.4 del Superiore Generale, p. Juan Lasso de la Vega, in data 30 Marzo 1986: “Oltre la presa di coscienza generale già citata, noi dobbiamo avere una sensibilità speciale per la povertà di coloro in mezzo ai quali operiamo e lavoriamo. Come Redentoristi, non dobbiamo aspettare che i poveri vengano a noi; il nostro carisma tradizionale ci spinge ad andare incontro ai poveri e a orientare il nostro zelo apostolico verso i loro particolari bisogni. E’ accaduto che in alcune parti del mondo, i poveri, i deboli e gli oppressi si sono rivolti ai sacerdoti e ai religiosi – perciò a nostri confratelli – per chiedere loro un sostegno morale nella loro lotta per un miglioramento della loro condizione economica, per una migliore giustizia sociale e anche per la liberazione dall’oppressione politica della tirannia. Dovendo rispondere a tali richieste, i nostri confratelli, sono stati interpellati in molteplici modi. Alcuni si sono accorti che la teologia che avevano appreso era inadeguata, compresa la loro conoscenza della Bibbia. Non potevano essere adottati particolari comportamenti pastorali, per cui bisognava restare neutrali davanti ai conflitti sociali…” (n. 8).
Del resto già le Costituzioni e gli Statuti della Congregazione si erano espressi in modo chiaro al riguardo: “I Redentoristi non possono lasciare inascoltato il grido dei poveri e degli oppressi. Essi debbono cercare tutti i mezzi per venire in loro aiuto” (Statuto 09), e ancora, “Ogni genere di povertà, materiale, morale e spirituale, deve stimolare il loro zelo apostolico” (Statuto 044).
E’ necessario tener presente tutta questa ricchezza spirituale e teologica per poter collocare, nella giusta luce, il cambiamento effettuato, le decisioni prese e anche i risultati conseguiti. Forse non ce ne eravamo accorti, ma la nostra piccola realtà religiosa, silenziosamente, aveva percepito, e accolto, questo spirito nuovo. Naturalmente, passare da una pastorale di semplice e sola evangelizzazione, e della testimonianza della povertà assoluta – essere più poveri dei poveri era il motto caratteristico – non fu facile per nessuno. D’altra parte nessuno ignorava il rischio di passare da una pastorale della evangelizzazione e della testimonianza a una pastorale dei containers nella quale, l’impegno dell’aiuto e dell’assistenza ai poveri del posto diventasse prioritario e assoluto. Naturalmente sentiamo il dovere di essere grati ai confratelli che, a vario titolo, hanno lavorato per la Missione, di aver saputo operare una straordinaria “conversione” mentale e nello stesso tempo, di aver saputo evitare i rischi che tale “conversione” poteva comportare.
La promozione sociale
Dopo la costruzione del Foyer St. Alphonse, per dare una sede ai seminaristi dove potessero studiare e frequentare la vicina Facoltà Teologica, il primo territorio in cui sperimentare la nuova modalità pastorale fu il distretto di Alasora, territorio poverissimo a noi affidato dal cardinale di Antananarivo il 15 Agosto 1989, dove in tempi rapidissimi furono costruiti due scuole e un dispensario con la presenza fissa di medici e infermieri.
La prima scuola, e siamo nel 1991-1992, fu realizzata con il contributo essenziale di don Danilo Burelli, cappellano degli immigrati italiani a Zurigo e Direttore dell’associazione “Amici del terzo mondo” (Via Tunnelstrasse 3– Pfaeffikon, 8330 Zurigo). Senza tale contributo la struttura non sarebbe stata realizzata, e forse, tutta la Missione avrebbe preso altre direzioni.
Ci fu anche un ulteriore animato dibattito, e cioè, se offrire la scuola a tutti, oppure scegliere di formare un gruppo ristretto da accompagnare, poi, fino all’università, perché fosse di guida a tutto il popolo.
Prevalse l’opzione di impegnarsi in una scolarizzazione di massa, come ancora si sta facendo. Naturalmente subito si pose il problema di un pasto per i bimbi che arrivavano alla scuola denutriti e stanchi del lungo viaggio e si dovette organizzare la mensa. E poiché ci fu il decesso di qualche bambino per polmonite o malaria, fu necessario anticipare l’apertura del dispensario e stabilire la presenza di medici e infermieri. Da allora, per grazia di Dio e dei benefattori, è stato tutto un susseguirsi di costruzioni di scuole, ambulatori, di realizzazioni di pozzi nei villaggi e tanto altro, pur continuando, naturalmente, l’assistenza pastorale e la visita ai villaggi.
Ho nominato i benefattori, che preferisco chiamare collaboratori, perché ciò che in quelle discussioni non avevamo messo in conto era l’entusiasmo e la collaborazione di tanti, credenti e non credenti, praticanti e non praticanti. Sia con l’opera delle adozioni a distanza, sia con la raccolta di alimentari e medicinali, ci siamo trovati spesso ad avere più di quanto si necessitasse.
A titolo individuale, o nei vari gruppi missionari, tantissimi sono diventati missionari, facendoci prendere coscienza che l’evangelizzazione e l’organizzazione della carità non sono più compiti “clericali”, ma appartengono a tutto il popolo di Dio. È doveroso ricordare due gruppi particolari che hanno garantito una continuità di collaborazione e di servizio: i dipendenti dell’Alitalia- Atitech di Capodichino e i Vigili del fuoco di Napoli.
Questi, guidati dall’infaticabile maresciallo Gaetano Cicatiello, oltre ad aver offerto la somma (cinque milioni) per la spedizione del primo container, hanno curato materialmente l’allestimento di decine e decine di containers, riuscendo a coinvolgere in tale opera tutti i Comandanti che si sono succeduti a Napoli e alti funzionari del Ministero dell’Interno.
Ripeto, l’esperienza della Missione nel Madagascar, non solo è stata di aiuto al popolo malgascio, e ha contribuito alla crescita di quella Missione, ma si è rivelata una formidabile occasione di crescita e di conversione dell’intera Provincia religiosa dei Redentoristi dell’Italia meridionale e di tutti i collaboratori laici. Ma forse tutto ciò non sarebbe avvenuto senza il sacrificio, la povertà e l’abnegazione dei missionari del primo decennio.
Oggi comprendiamo con molta chiarezza che senza scuola, senza salute, senza pane e acqua, non c’è futuro, non c’è vita, non c’è nemmeno evangelizzazione.
Mi piace concludere con una frase di don Danilo Burelli: “Le opere sono lì a dare testimonianza della generosità e della solidarietà di migliaia di benefattori e sono lì ad accogliere schiere di bambini, di ragazzi e giovani che studiano e si preparano ad un futuro che dia loro la dignità che il Signore ha dato a tutti”.
Abbiamo di che rendere grazie a tutti e a Dio.
P. Antonio Di Masi C.SS.R.
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